Antonio Fiore, la creatività al servizio della medicina

Medico dell’Italia e presidente della Commissione Medica Fie. Ma anche artista e scrittore. L’intervista ad Antonio Fiore.

 

Il segreto è la creatività. Perché anche negli ambiti più razionali e scientifici della vita, come può essere la professione di medico dello sport, la creatività rimane imprescindibile. Soprattutto se si ha come compito quello di mantenere in perfetta efficienza atleti che, sulle pedane, si giocano Mondiali e Olimpiadi. In oltre trent’anni di carriera, il dottor Antonio Fiore ha accompagnato, in qualità di medico, il cammino degli azzurri della scherma, e ultimamente, in qualità di presidente della Commissione Medica della Fie, si è fatto promotore di idee e iniziative che possano permettere al nostro sport di migliorare ulteriormente.

Ma c’è altro. C’è quel filo conduttore, creatività, che lega tutti gli aspetti della vita del dottor Fiore: c’è la scrittura, c’è il disegno e quella necessità di uscire dai comparti stagni e dalle classificazioni. In una visione olistica della vita che da sempre è suo marchio di fabbrica.

Innanzitutto ci può spiegare in cosa è consistito il suo incarico di Presidente della Commissione Medica della Fie a Rio?

Come Presidente della Commissione Medica Fie avevo la responsabilità  sanitaria dell’intera competizione Olimpica. Ovvero organizzare e vigilare tutte le attività di assistenza medica, coordinando tanto lo staff locale – in questo caso quello brasiliano – quanto quello delle varie nazionali che ne erano dotate. Oltre a questo, avevo il compito istituzionale di valutare tutto ciò che avviene in pedana durante tutto lo svolgimento della competizione. Ovvero, ogni qualvolta l’arbitro chiamava il medico per un infortunio vero o presunto, io salivo in pedana per verificare le condizioni dell’atleta e capire se l’infortunato necessitava di un intervento breve oppure si fossero resi necessari i 10 minuti di medical time out.

Lei però si sta battendo perché questo tempo venga dimezzato. Cosa c’è alla base della sua proposta?

Per una questione di fruibilità della scherma. Perché se dovesse mai capitare che entrambi gli atleti chiedano l’injury break, si rischia di non finire più. Inoltre c’è anche una ragione medica: se l’infortunio è davvero serio, non sono sufficienti dieci minuti per recuperare, mentre nella maggior parte della casistica riscontrata durante gli ultimi Mondiali Giovani, che abbiamo usato come test per la regola dei 5 minuti, abbiamo notato che quasi tutti gli infortuni occorsi erano gestibili in due, massimo tre minuti.

Ha anche altre proposte in progetto sempre in seno alla commissione medica?

Ho sempre pensato che il medico dovesse andare oltre a un ruolo “notarile”, ma dovesse essere sempre di più in prima linea nell’assistenza. E questo è alla base di un mio progetto di creazione di una sorta di “task force ” medica internazionale: si tratta di mettere assieme un gruppo di medici sportivi e di fisioterapisti internazionali, coordinati da me, che affianchino il delegato medico Fie nel corso dei grandi eventi internazionali. Questo per aiutare soprattutto quelle nazioni che non hanno la possibilità di permettersi uno staff medico. Ma anche al fine di affiancare lo staff medico locale, che in molti paesi spesso non è specializzato e organizzato per le grandi competizioni schermistiche. Purtroppo però è un concetto difficile da far passare, perché spesso e volentieri mi trovo a scontrarmi con il conservatorismo di alcuni colleghi. Senza contare l’aspetto economico e i problemi legali e burocratici che uno staff del genere comporta. Ma spero alla fine possa passare, anche perché pian piano sta penetrando.

Lo staff medico della Federscherma italiana è visto come modello anche per altre Federazioni. Qual’è il metodo di lavoro usato?

Ad oggi possiamo contare su uno staff di 50/55 persone, puntando molto sull’inserimento dei migliori medici specializzandi in medicina dello sport e dei più brillanti giovani laureati in fisioterapia. E molte altre Federazioni in seno al Coni poi stanno iniziando a guardare con grande interesse a questo modello, che all’inizio è stato difficile da imporre. Quando io sono entrato in Federazione nel 1988, infatti, il medico non era un medico dello sport e c’era un solo fisioterapista per tutte le armi. Da lì, pian piano, ho cominciato a modificare le cose per arrivare allo stato attuale. Quanto allo staff, cerco di puntare su gente giovane e motivata, prendendo i migliori specializzandi in medicina dello sport e i più validi e motivati laureati in fisioterapia per far fare loro un percorso di crescita all’interno della Federazione Italiana Scherma.

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Che rapporto ha con gli atleti?

Ho sempre cercato di avere un rapporto cordiale con gli atleti, tenendo però sempre presente il mio ruolo,  perché tutti loro devono vedere in me una figura professionale autorevole che tuttavia, nel caso serva, sappia anche dire di no. Malgrado il rapporto di cordialità, insomma, a me quello che interessa è tutelare la salute degli atleti. E una volta che maturo la mia decisione, quella è e in passato non sono mai tornato indietro. Ad ogni modo, in verità, qualcuno a cui sono molto grato c’è.

Ovvero?

Valentina Vezzali. Perché con lei spesso ho avuto discussioni anche dure, ma un suo pregio assoluto è quello della schiettezza, perché Valentina ha sempre detto tutto in faccia, anche nelle sue uscite peggiori. E, ti assicuro, a volte ne faceva di terribili! Ma se aveva un problema con me, me lo veniva a dire in faccia, senza che io venissi a sapere nulla sul mio conto da altri.

Come si è avvicinato alla scherma?

Dopo essermi specializzato in medicina dello sport e in ortopedia,  lavoravo all’Istituto di Medicina dello sport del Coni. Fu allora che il Professor Caldarone, allora medico federale decise – in concerto con il presidente di allora, Nostini – di far entrare un gruppo di giovani medici cui assegnare ciascuno un’arma. A me toccò il fioretto maschile.

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Ma la pratica anche la scherma?

Da quest’anno inizierò a prendere lezioni di sciabola con il Maestro Spampinato, che lavora prevalentemente coi Master, allenandoli in maniera specifica perché possano competere nelle loro categorie . Oltre a questo io pratico anche il parkour, un cimento davvero speciale per un sessantenne! Anche questa la vedo come una sorta di provocazione ideologica, per uscire dallo schema del signore maturo che fa le maratone o scala i passi alpini ma che non riesce a scavalcare un muro.

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I disegni di Antonio FIore nella call room di Rio De Janeiro

Cosa c’è nella vita di Antonio Fiore al di fuori della scherma?

Da dieci anni più o meno mi dedico anche alla narrativa. Ho pubblicato anche dei racconti e ora sto scrivendo un romanzo che mi auguro, una volta terminato, che possa essere pubblicato. Inoltre ho un passato di Accademia di Belle Arti, prima dipingevo ora non ho più tempo e mi diletto a disegnare. Nella call room di Rio c’era una lavagna con lo schema delle pedane olimpiche: ho cominciato a fare dei disegni, che poi mi hanno cancellato, ma i volontari li hanno talmente tanto apprezzati questi miei schizzi, che mi hanno appiccicato al muro quattro o cinque cartoncini bianchi su cui potessi sbizzarrirmi, chiedendomi anche se potessi disegnare sulle loro magliette. L’ultimo giorno sono tornato a disegnare anche sulla lavagna! Ed è rimasto un bel ricordo, perché anche gli atleti passavano da lì e lasciavano un messaggio o una firma nell’attesa di entrare in pedana! Questa componente creativa ha influito non poco nel mio lavoro: perché penso che anche discipline con approccio più scientifico, come la medicina, non possano prescindere da un elemento di creatività.

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Fotografia Augusto Bizzi per Federscherma

 

 

 

 

 

 
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