I signori della scherma – Giancarlo Bergamini

Giancarlo Bergamini racconta a Pianeta Scherma la sua straordinaria carriera schermistica. 

 

Chiacchierare con Giancarlo Bergamini è stato come fare un viaggio indietro nel tempo. Alla scherma in bianco e nero, alla feroce rivalità fra Italia e Francia, all’epopea dei Mangiarotti e di D’Oriola, negli anni in cui pian piano l’elettrificazione cominciava a muovere i primi passi e, inesorabilmente, cambiare per sempre la scherma. Nato a Milano nel 1926, Bergamini vanta nel suo palmares tre medaglie olimpiche nel fioretto, conquistate fra Helsinki 1952 (argento nella gara a squadre) e Melbourne 1956, l’edizione per lui più ricca di gioie, coronata dall’oro a squadre e dall’argento individuale, beffato dal Mozart del fioretto Cristian D’Oriola.

Siamo andati a incontarlo a casa sua, in un elegante appartamento in pieno centro della sua Milano, da cui non si è mai allotanato. Giusto il tempo di sorseggiare un caffè gentilmente offertoci dalla figlia («Lei potrebbe andare d’accordo con mia moglie» mi dice ridendo mentre verso dello zucchero nella mia tazzina «sta prendendo lo zucchero con il caffè, non il caffè con lo zucchero!») e poi il signor Giancarlo, brillante e arzillo 89enne, apre il libro dei ricordi. Della sua carriera schermistica, certo, ma anche della sua storia di uomo, trasformando così un’intervista in una lezione di vita.

Si ricorda i suoi inizi con la scherma?
È stato un caso. frequentavo la quarta o la quinta elementare: a quei tempi si andava a scuola anche il sabato – mattina e pomeriggio – mentre non si andava al giovedì. La mattina era dedicata ad attività para-scolastiche, e fra queste c’era la scherma. A tenere il corso era Dario Mangiarotti, fratello di Edoardo. Naturalmente non imparai molto, era solo un’ora a settimana e perdipiù la cosa durò un solo anno. Alla ripresa delle scuole, mi dissero che avrei potuto continuare a fare scherma rivolgendomi al Gruppo Rionale Fascista Emilio Tonoli. Ai tempi del Ventennio, ciascuno Gruppo affiancava l’attività sportiva a quella politica e culturale e fra gli sport, c’era la scherma. E da lì iniziò tutto. Devo molto a mio padre: era lui a dirmi “Sei pronto, andiamo?” e ai tempi non era un domanda, era un ordine! Quindi non gli devo molto, ma moltissimo!

E delle sue prime gare che ricordi ha?
La prima gara che feci, la vinsi! Campionato Provinciale Balilla Escursionista, 8 marzo 1938! Ho ancora la foto che mi lasciò il mio maestro in occasione di quella gara. Da lì in poi ho fatto la mia trafila di gare, dalle giovanili fino alle Olimpiadi. Ne feci due (1952 e 1956, ndr) ma avrei potuto farne perlomeno altrettante. Già nel 1948 avrei potuto gareggiare alle Olimpiadi ma rinunciai perchè il mio Maestro nuovo – con cui avevo cominciato a lavorare nel 1947 – si ammalò e non ebbi il coraggio di tornare dal mio vecchio. Avrei dovuto giocarmi il posto, ma avevo comunque ottime possibilità di entrare nella squadre per Londra.

Ci racconta le sue esperienze alle Olimpiadi di Helisinki e Melbourne?
A Helsinki facemmo argento nella prova a squadre, mentre a Melbourne abbiamo vinto la gara a squadre e feci anche l’argento nella gara individuale, con l’oro che andò a D’Oriola. Che pure sconfissi in finale, ma avendo perso due assalti alla stoccata decisiva nel corso del girone all’italiana – ai tempi era questa la formula di gara – contro altri schermidori, alla fine mi sono trovato con due sconfitte sul groppone mentre lui una sola, quella contro di me. E così l’oro se lo prese lui. Fra tutti, però, sono quello che ha battuto più volte D’Oriola: lui era più forte di me, lo riconosco, ma ogni incontro fa storia a sé.

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Cristian D’Oriola in affondo: il francese fu uno dei maggiori interpreti del fioretto e uno dei più forti avversari di Bergamini

Il francese è universalmente riconosciuto come uno dei massimi interpreti del fioretto, quale era il suo punto forte?
Non aveva bisogno di avere tanta scherma, perché aveva una scelta di tempo straordinaria e faceva degli affondi che metteva le palle sul pavimento (ride, ndr). Ogni volta sembrava fuori misura, ma arrivava sempre e comunque a bersaglio. Una volta, uno che veniva considerato da molti un grande maestro, mi chiese: «Ma è questo D’Oriola? Cosa fa di così speciale?» Io gli risposi: «Maestro, sa cosa fa? Tocca!». Aveva una scelta di tempo superiore a chiunque altro e una scioltezza di movimenti di un ballerino. Inoltre era una persona molto corretta e leale in pedana. L’incontro più bello che ho fatto con lui è stato a un Mondiale in Lussemburgo in una prova a squadre: la Francia conduceva a 8-7 e l’ultimo incontro della serie era il mio contro D’Oriola. Prima di salire in pedana mi dissero: «Bergamini, devi vincere almeno 5-2, altrimenti perdiamo per la differenza stoccate». Io vinsi 5-1.

Oltre alla scherma, cosa c’era nella vita di Giancarlo Bergamini?
La scherma per me è sempre stata una passione. Che mi ha dato tante gioie, ma pur sempre una passione. Al di fuori avevo la mia famiglia e il mio lavoro. Ho amministrato e poi sono stato presidente di un’azienda che produce articoli tecnici in gomma e che ho lasciato sette anni fa. Ora la sta portando avanti mio figlio. Ai nostri tempi, per noi italiani come per i nostri avversari, era possibile conciliare lavoro e scherma, oggi meno: gli atleti di adesso sono in giro tutto l’anno a fare gare in ogni angolo del Mondo e non possono nè studiare nè lavorare. E allora sono tutti militari.

Com’era la vita di uno schermidore ai suoi tempi?
C’erano poche gare: massimo tre individuali all’anno. Oggi tre gare le fanno in un mese. Ai tempi si organizzavano molti incontri internazionali, come ad esempio la Coppa Gaudin, perché non c’erano altre occasioni per tirare l’uno contro l’altro. Sono vissuto in un’epoca favolosa, in cui non pensavo di fare della scherma la mia attività professionale. Oggi è impossibile per un dilettante – nell’accezione più pura del termine – fare tutte queste gare.

Forse è una sensazione solo mia, sembra che – a livello generale – lo sport stia perdendo la sua essenza per trasformarsi in qualcosa d’altro: qual’è la sua opinione in merito?
Adesso sta diventando una vera e propria professione e non più un semplice divertimento. All’epoca mia, fra il vincere e il perdere la differenza era solo nella dimensione delle medaglie, oggi ballano milioni. Sono ben diverse le motivazioni. Prenda l’esempio dei calciatori: ho visto giocare Meazza, che quando segnava la gioia era al massimo contenuta in due pacche sulle spalle o in un abbraccio. Oggi invece fanno di quegli show che fanno quasi ridere. Come se io in catena di montaggio mi fossi messo a urlare perchè un pezzo riusciva bene! Sono i tempi che cambiano

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Una foto d’epoca di Giancarlo Bergamini (archivio crl fis)

Che differenze nota fra la scherma del suo tempo e quella attuale?
Adesso la scherma è quasi un altro sport rispetto a quando tiravo io. Altra sensibilità, altra fisicità. Prenda ad esempio l’episodio mortale accaduto ai Mondiali di Roma nel 1982 (Vladimir Smrnov trafitto dalla lama del tedesco Behr, spezzatasi e conficcatasi nell’occhio del russo, morto giorni dopo all’ospedale, ndr): ai miei tempi non sarebbe accaduto. Ad ogni modo, c’è evoluzione in tutti gli sport ed è giusto che accada anche nella scherma: un po’ come nel tennis, ai tempi, quando il servizio non era così importante come lo è ora, si vedeva l’estro del singolo giocatore.Poi l’elettrificazione del fioretto ha fatto la differenza in maniera sostanziale. A oggi l’unica arma in cui ancora si vede della scherma è la spada, mentre ad esempio per me la sciabola è diventata impossibile da seguire: nel 2006 andai a Torino a vedere i Mondiali e assistetti a un incontro a squadre fra Francia e Ucraina: in tutto il match contai tre parate e risposte. Una volta c’era anche la controparata, oggi invece si parte sull’a voi! e si cerca di toccare per primo.

Cosa ha portato nella scherma l’elettrificazione? Si può veramente parlare di un altro sport come a volte mi capita di leggere sui libri?
Innanzitutto una premessa: questa è stata un’evoluzione necessaria. Si immagina, con il numero di partecipanti odierni a una gara, quanto durerebbero se per ogni assalto erano necessari cinque giudici? Oggi cinque giudici seguono cinque incontri. Indubbiamente all’epoca l’azione schermistica era più definita, mentre oggi si punta di più a far suonare a ogni costo l’apparecchietto di segnalazione. Pensi che quando ho cominciato io a fare le prime gare, c’erano gli assalti di classificazione: prima di ogni gara si tirava e se uno non eseguiva le azioni schermistiche con i dovuti crismi, non veniva nemmeno ammesso alla gara stessa. Era una solita di esame di tecnica schermistica. Però, come ripeto, sono evoluzioni che vanno accettate: oggi un assalto gara a squadre dura quaranta/cinquanta minuti, ai miei tempi potevano volerci anche quattro o cinque ore.

Un’altra tendenza figlia dei tempi attuali è la globalizzazione dello sport: quale era la geografia della scherma ai tempi di Giancarlo Bergamini?
Nel fioretto era una questione fra noi italiani e i francesi, con cui c’era una rivalità feroce; nella sciabola la scuola forte era quella ungherese e poi siamo arrivati noi, mentre già ai tempi la spada era quella più incerta e aperta nei pronostici. Fra l’altro, se vediamo tutte le armi, la spada è quella in cui l’elettrificazione ha portato meno sconvolgimenti.

Lei accennava alla rivalità Italia – Francia: come la vivevate?
Era una rivalità molto accesa, ma molto leale. Personalmente, eravamo tutti amici, al punto che quando ci si incontrava a Parigi per la Coppa Gaudin, si usciva sempre a cena al termine della gara. Si andava anche in qualche locale da ballo, loro accompagnati dalle mogli, noi no perchè le nostre donne non venivano mai alle gare con noi. Eravamo veramente molto amici, perchè sapevamo di far parte tutti di una sola grande famiglia e di essere tutti nelle stesse condizioni di dilettanti con la passione per la scherma. Erano quelle amicizie nate in pedana e poi durate per sempre. C’era un buon rapporto anche con i loro dirigenti, e il loro presidente ogni volta che mi incontrava mi salutava sempre dicendomi «Bonjour petit!», perché all’epoca ero il più giovane della squadra. Ad ogni modo, quella coi francesi era la rivalità per eccellenza! Anche se poi sono arrivati  russi, polacchi, tedeschi e – per qualche anno – anche i cubani, che avevano i maestri russi.

Milano ha dato alla scherma campioni come Mangiarotti e, in epoca più recente, Rota e Diana Bianchedi. Ora pare aver perso questo ruolo centrale: secondo lei perchè?
Secondo me fa molto anche la mancanza di maestri. Ai miei tempi il mio maestro scendeva da Seveso, faceva lezione a me e a un altro tiratore, poi tornava a Seveso alle undici e mezzo, mentre negli altri giorni faceva lezione in sala dopo che staccava dalla banca. Oggi manca la passione, ma perché questa ci sia le cose devono essere fatte con voglia e non perché è un lavoro. Un po’ come in fabbrica: i primi tempi che lavoravo lì, se c’era da sistemare un pezzo difettoso o da dare assistenza ad altre ditte, eravamo pronti a farlo. Se c’era bisogno del pezzo per il lunedì, alla domenica era già pronto e consegnato. Oggi chiedere un’ora di straordinario alle persone è come chiedere un prestito. Le faccio un altro esempio: quando le banche cominciavanoa chiuder al sabato, anche da noi si propose di lavorare un’ora in più durante la settimana per stare a casa al sabato. Sa cosa rispondevano? «No dottore, meglio che veniamo a lavorare, perché se stiamo a casa spendiamo e non lavoriamo».

Giancarlo Bergamini oggi segue ancora la scherma? C’è qualche campione attuale che le piace particolarmente?
Anche se non sono più nel mondo della scherma, quando la danno in televisione la seguo sempre. Mi emozionano soprattutto le ragazze, perché sono campionesse formidabili e fanno più scherma rispetto ai loro colleghi maschi. E vincono pure tanto…

Per concludere: della sua lunga carriera, qual’è il suo ricordo più bello, schermisticamente parlando?
La lezione con il mio Maestro in sala. Da soli, in silenzio. Facevamo lezione per circa 45/50 minuti, e il Maestro non poteva dare quel tempo a tutti gli allievi. Lo dedicava a me perchè mi serviva poi per affrontare le gare. E se qualcuno appariva svogliato o scalchignava un attimo, veniva lasciato andare. Il mio Maestro diceva sempre «In questa sala c’è una porta per entrare e due per uscire».

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Fotografia di Alessandro Gennari per Pianeta Scherma

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