Elogio delle sconfitte

In lacrime dopo la finale per il bronzo. Arrabbiate, deluse, abbracciate. Olga Kharlan, che non riesce a vincere alle Olimpiadi, e Manon Brunet, a cui hanno rubato un sogno. Io sto con loro.

 

Quattordici a dieci. Ancora una stoccata, una sola, poi sarà finita. Olga Kharlan e Manon Brunet si guardano, da dietro la maschera. Sono una di fronte all’altra, sulla pedana di una finale olimpica, ma non è la finale giusta. Olga era venuta a Rio per prendersi quell’ultimo oro che le manca in una carriera che a 25 anni è già straordinaria. Manon era partita col cuore più leggero, ma si era ritrovata a un passo dall’assalto più prestigioso. Anzi, per dirla tutta, ci sarebbe pure arrivata, non fosse stato per due arbitri così “distratti” da non accorgersi nemmeno alla moviola che quell’azione sul 14-12 per lei contro Sofya Velikaya era un suo attacco, e non un tempo comune.

Così Olga e Manon si trovano lì, a dover tirare un altro assalto che non avrebbero voluto tirare, perché questo supplizio aggiuntivo della finale per il terzo e quarto posto, gentile omaggio del Cio alla scherma, se lo sarebbero risparmiato. Quattordici a dieci. Una stoccata. Quindici a dieci. Olga vince, si fa per dire. Manon perde, ma aveva già perso. Le due si guardano, si tolgono la maschera, si abbracciano e piangono.

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Abbraccio e lacrime tra Kharlan e Brunet (foto di Augusto Bizzi)

Sono lacrime amare, di delusione e rabbia. La Kharlan ce l’ha con se stessa, non può essere altrimenti. Contro la Egorian è stata irriconoscibile, si è fatta prendere ancora dal braccino da Olimpiadi, sempre lì, sul più bello, come era già successo a Londra. Lei, che a 18 anni, a Pechino, incantò il mondo della scherma trascinando l’Ucraina all’oro a squadra, piazzando 22 delle 45 stoccate della sua nazionale. Ventidue. Su Quarantacinque. Lei, che tra Londra e Rio si era sbloccata anche ai Mondiali, vincendone due di fila. Lei che ha vinto 22 prove di Coppa del Mondo, quante la Zagunis, 12 in più della Velikaya, 20 più della Egorian.

La Brunet ce l’ha col mondo, forse, ma soprattutto con la Russia e con gli arbitri che le hanno scippato una finale. Quattordici a dodici, «allez», un secondo, forse meno, e si accendono due luci. Lei e Sofya Velikaya toccano insieme, ma è fin troppo evidente che l’attacco è della giovanissima francese. L’arbitro va al video, ma è una formalità, dai. D’altra parte è l’ultima stoccata, si sono accese entrambe le luci, e lui deve vedere il video. Ritorna in peda, Manon ha l’urlo già in gola, Sofya, probabilmente, è pronta a levarsi la maschera e stringere la mano all’avversaria. Invece no. «Simultané», dice l’arbitro. Ma come «simultané»? Come è possibile? Velikaya mette la tredicesima, la quattordicesima, la quindicesima stoccata. Ma tutto ciò non sarebbe mai dovuto esistere. Doveva finire così: 15-12 Brunet, la francese in finale, la russa campionessa del mondo a tirare per il bronzo. E invece no.

Così Manon sfida la Kharlan, all’inizio ci prova pure, poi si svuota botta dopo botta, e alla fine aspetta solo di potersi lasciare andare. E piangere.
Piange, abbracciata alla rivale, che ricambia le lacrime e poi si stacca da lei, puntando gli spalti. Abbraccia i parenti, gli amici, i connazionali. Ma prima ancora vede una faccia nota che la guarda e la chiama a sé. Ad attenderla, aperte, ci sono le braccia di Mariel Zagunis, che si stringono in un gesto che ha troppi significati per raccontarli tutti. Dentro ci sono una ventina di assalti tirati, parecchie finali, un numero incalcolabile di stoccate. Negli ultimi otto anni si sono prese a sciabolate per decidere chi fosse la più forte: all’inizio vinceva sempre l’americana, poi ha iniziato a farlo quasi solo l’ucraina.

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L’abbraccio tra Olga Kharlan e Mariel Zagunis (screenshot da internet).

La Zagunis, a Rio, non ha brillato. È uscita agli ottavi e ha chiuso nona. Ma sa bene cosa significa vincere un’Olimpiade. Le è successo due volte, ad Atene 2004 e a Pechino 2008. Per questo, quando ha visto gli occhi di Olga bagnati di lacrime, la ha accolta tra le sue braccia. Perché una come la Kharlan non può continuare a vivere senza un oro olimpico. E perché quella finale per il terzo posto tra due atlete deluse, è stato il picco emotivo di questo primo scorcio di scherma alle Olimpiadi.
Mi perdoni Sofya Velikaya, che per carriera e nobiltà meriterebbe l’oro olimpico quanto la Kharlan. In qualsiasi giorno, in qualsiasi edizione dei Giochi, ma non ieri. Mi perdoni Yana Egorian, che quell’oro se l’è preso, meritandolo, senza possibilità di discussione. Scusatemi, ma io sto con le sconfitte. Sto con Olga e Manon, e con chi le abbraccia come Mariel. Almeno a questo giro.

 

Twitter: GabrieleLippi1

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Fotografia Augusto Bizzi per Federscherma

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